La bottega dei Vivarini: il racconto di due generazioni di pittori veneti attivi dalla metà del Quattrocento sino agli albori del Cinquecento.
Dopo aver ospitato a Palazzo Sarcinelli la mostra Un Cinquecento inquieto, e poi quella dedicata ai due Carpaccio, Vittore e Benedetto, la città di Conegliano ospita ora la prima rassegna monografica – come le precedenti, a cura di Giandomenico Romanelli – mai rivolta in epoca moderna alle figure dei grandi pittori muranesi della dinastia Vivarini: cioè ai fratelli Antonio e Bartolomeo, nonché al figlio del primo, Alvise. Tre personalità che insieme coprono circa sessant'anni di pittura, in una stagione artistica aperta dalla prima opera a noi nota del capostipite Antonio - il Polittico di Parenzo, firmato nel 1440 - e conclusa dalla Pala di Sant'Ambrogio conservata ai Frari di Venezia, l'ultima opera di Alvise rimasta parzialmente incompiuta alla sua morte (1503-1504), e completata dal discepolo Marco Basaiti.
E' un lungo arco di tempo, dunque, quello occupato dalla prolifica bottega dei Vivarini, nel quale i primi ad agire sono Antonio e Benedetto (di una decina d'anni più giovane del fratello), al lavoro sia insieme che separatamente spargendo sino al limitare del nuovo secolo - del 1491 è l'ultima opera firmata di Bartolomeo, il Trittico di San Martino oggi alla Carrara di Bergamo – numerose imprese pittoriche nell'intero Golfo Adriatico: cioè in Istria, in Dalmazia, nelle Puglie, oltre che nei territori veneziani. Nel loro itinerario artistico i due fratelli Vivarini si esprimono con un linguaggio eloquente e rigoglioso, sebbene ancora legato a severi schemi tre-quattrocenteschi, come nel citato Polittico di Parenzo del solo Antonio, o nel Polittico di Arbe (l'Isola di Rab, in Croazia) cui mette mano anche Bartolomeo; opere difficilmente raggiungibili, la cui presenza a Conegliano è dunque preziosa. Oppure stando ancor immersi nel gotico fiorito, come dimostra la calligrafica ed aristocratica eleganza del Trittico della chiesa di San Tomaso Becket a Padova, firmato a quattro mani da Antonio e dal socio (e cognato) Giovanni d'Alemagna, ed oggi purtroppo diviso tra il locale Museo Diocesano e la National Gallery di Londra. Mostrano magari qualche apertura alla modernità, come fa Bartolomeo nell'ariosa Sacra conversazione di San Nicola a Bari; ma nel complesso i due paiono rifiutare ostinatamente, a differenza del loro coetaneo Giambellino, convinte aperture alle nuove espressività che stanno smuovendo le acque della Laguna, reiterando stilemi sempre meno persuasivi. Non è un caso, quindi, che Bartolomeo trovi i suoi ultimi committenti in luoghi un po' remoti ed appartati come le valli bergamasche.
A farsi suggestionare prima dalla ventata di freschezza che Antonello da Messina porta a Venezia negli anni anni settanta, e ad aderire poi all'estetica del tonalismo di Giorgione e Tiziano, rinnovando così lo spirito della bottega di famiglia, è invece il più giovane Alvise, senza dubbio il più significativo ed avanzato tra i Vivarini: il quale già negli anni settanta colora un piccolo, raffinato San Girolamo penitente di chiara ascendenza antonelliana, custodito alla Carrara di Bergamo, ed un imponente (e struggente) Cristo portacroce a San Giovanni e Paolo in Venezia; e che nel 1480 consegna a Treviso una luminosa Sacra conversazione – oggi alle Gallerie dell'Accademia, dal quale deriva direttamente un piccolo e raffinatissimo Sant'Antonio anch'esso in mostra – siglando tre opere che evidenziano la sua voglia di superamento dei lessici familiari, e l'adesione ai nuovi linguaggi rinascimentali. Ed infatti negli anni seguenti Alvise s'avvia per un percorso sempre più appassionante, che culmina con tre lavori di assoluta eccellenza, pure presenti nelle sale di Palazzo Sarcinelli: il piccolo, devozionale Cristo benedicente di Brera (1498) suggestionato da Antonello da Messina, lo stravolgente Cristo risorto di San Giovanni in Bragora a Venezia, memore del soggiorno veneziano del Perugino, con due figure in scorcio di sapore curiosamente pre-manierista; ed infine l'ardita e modernissima Madonna con il Bambino e Santi oggi ad Amiens, episodio talmente alieno e stupefacente da aver fatto supporre in passato, al di là del cartiglio chiaramente da lui firmato, a taluni storici una differente paternità del Lotto o del Basaiti. Opera firmata come sempre, orgogliosamente, con l'epiteto “de Murano” (in altre tavole si può leggere “muraniensis”), perché i tre Vivarini, pur tenendo da un certo punto in poi bottega in città ai SS. Apostoli, veri veneziani non si sentirono mai.